L'abbazia del delitto

Il nome della rosa

Il nome della rosa, pubblicato da Bompiani nel 1980, è il primo romanzo di Umberto Eco. Pensato come opera su più livelli di lettura, in grado di raggiungere segmenti di pubblico assai differenziati, Il nome della rosa fatica a rientrare in qualsiasi classificazione di genere prestabilita. Thrillergothic novelcomte philosophique confluiscono in un pastiche narrativo divenuto emblema della narrativa postmoderna italiana.

I titoli di lavoro pensati dall’autore rispecchiano diverse interpretazioni che questa densa materia narrativa avrebbe potuto assumere a seconda della collocazione nelle rispettive nicchie del mercato editoriale:

L'abbazia del delitto

rimanda alla tradizione del romanzo poliziesco, abbandonato per non ingannare il pubblico;

Adso da Melk

è un calco dell'abitudine britannica di assegnare ai libri il nome del protagonista;

Blitiri

è un termine usato dai logici medievali per indicare una parola priva di senso;

Il nome della rosa

è un verso del De contemptu mundi di Bernardo Morliacense, benedettino del XII secolo, posto in chiusura all’intero romanzo:

Questo estratto rimanda all’idea che di tutte le cose scomparse, come il secondo libro della Poetica di Aristotele, la biblioteca dell’abbazia o il pensiero medievale in toto, alla fine non rimangano altro che puri nomi: si tratta un ultimo rimando alla ferma convinzione che il narratore non debba fornire interpretazioni della propria opera, ma lasciarle formulare liberamente al pubblico.

Umberto Eco, cenni biografici

il nome della rosa umberto eco

Umberto Eco (Alessandria 1932 – Milano 2016) è stato filosofo, medievista, semiologo e massmediologo nonché autore di saggi, romanzi e appassionato bibliofilo. Dopo la laurea in Filosofia conseguita con una tesi sull’estetica di Tommaso d’Aquino entra nell’orbita della cultura di massa grazie a impieghi presso l’allora neonata RAI.

Parte del movimento neoavanguardistico Gruppo 63, fondatore del DAMS (1971), direttore editoriale di Bompiani, docente di Estetica e poi di Semiotica, collaboratore presso i principali quotidiani italiani, primo tra tutti L’Espresso con la rubrica La bustina di Minerva, nell’immaginario comune Umberto Eco è, innanzitutto, l’autore de Il nome della rosa (1980), primo dei suoi otto romanzi. Seguiranno, nella narrativaIl pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000), La misteriosa fiamma della regina Loana (2004), Il cimitero di Praga (2010) e Numero zero (2015).

Tra le sue opere di saggistica, accademica e non, si ricordano Apocalittici e integrati (1964), Il superuomo di massa (1976), Trattato di semiotica generale (1975), Il fascismo eterno (2018). Prima della scomparsa si è interessato alle discussioni intorno a Internet e ai social media, oltre che alla digitalizzazione della lettura, e ha fondato insieme a Elisabetta Sgarbi la casa editrice La nave di Teseo.

La trama

Il nome della rosa si apre con l’utilizzo di una triplice cornice narrativa. L’autore entra in possesso di un manoscritto del sedicesimo secolo, ad opera di tale abate Vallet, copia a sua volta di un altro manoscritto del quattordicesimo secolo, con le avventure di Adso da Melk.

Dopo una tormentata storia nella storia, fatta di tradimenti, furti e ricerche bibliografiche, l’autore recupera altre testimonianze degli avvenimenti del manoscritto di Vallet e presenta al lettore la problematica della restituzione di avvenimenti così lontani dal tempo e dal pensiero attuale.

Segue un prologo in cui la voce narrante è Adso, che ormai “giunto alla fine della sua vita da peccatore” vuole lasciare testimonianza degli avvenimenti di cui è stato partecipe in giovane età. Dopo questa ulteriore introduzione si entra nel vivo della narrazione con la prima giornata.

Tempo

1327, in un tardo Medioevo scosso dalle lotte di potere interne alla cristianità: pochi anni prima l’imperatore Ludovico era sceso in Italia “per ricostituire la dignità del sacro romano impero”, mentre qualche anno prima papa Giovanni XXII aveva condannato i francescani e le loro idee sulla povertà di Cristo. L’arco temporale del romanzo copre sette giornate nell'ultima settimana di novembre, ciascuna a sua volta scandita in periodi corrispondenti alle ore canoniche della Regola benedettina.

Luogo

Abbazia benedettina di una non precisata e fittizia località sugli Appennini tra Piemonte, Liguria e Francia. Il romanzo inizia con l’ingresso dei protagonisti nell’abbazia e si conclude con la loro fuga. All’interno di questa cornice i personaggi si muovono, come in una scacchiera, in più stanze, come lo scriptorium, la cucina, il refettorio, il chiostro. Il fulcro dell’intera vicenda è la biblioteca dalla struttura labirintica, il cui accesso è consentito solo al bibliotecario e al suo assistente.

Genesi dell'opera e pubblicazione

Ho incominciato a scrivere nel marzo 1978, mosso da un’idea seminale.
Avevo voglia di
avvelenare un monaco.

Per il suo esordio letterario Umberto Eco decide di tornare, almeno parzialmente, alle origini. La stesura de Il nome della rosa dura complessivamente più di due anni, di cui uno dedicato esclusivamente alla costruzione del mondo narrativo. Eco fa appello ai suoi studi da medievalista, tenuti “in ibernazione” da decenni come attività principale ma sempre presenti, direttamente o indirettamente, nelle sue opere.

Il Medioevo è rimasto, se non il mio mestiere, il mio hobby - e la mia tentazione costante, e lo vedo dovunque, in trasparenza, nelle cose di cui mi occupo, che medievali non sembrano e pur sono.

Dopo aver considerato la possibilità di pubblicare il suo primo romanzo presso l’editore Franco Maria Ricci Umberto Eco dà alle stampe Il nome della rosa presso Bompiani, casa editrice nella quale lavorava da diciassette anni, nel settembre del 1980. Si pensa inizialmente a una tiratura sperimentale di poche migliaia di copie, ma l’entusiasmo dei librai convince i collaboratori della Bompiani ad alzare la prima tiratura de Il nome della rosa a 50 000 copie. Il successo previsto dalle prenotazioni è solo la punta dell’iceberg del caso editoriale che ne scaturisce.

Dalla pubblicazione nell’autunno 1980 alla vittoria del Premio Strega 1981, fino alla notizia e alle ripercussioni dell’adattamento cinematografico diretto da Jean-Jacques Annaud del 1986, la stampa italiana ha dedicato ampio spazio al successo e alla ricezione de Il nome della rosa, nel suo percorso da best seller dell’anno a long seller e classico moderno della letteratura italiana.

L’Unità, 11 dicembre 1980

Il critico Vittorio Spinazzola dedica a Il nome della rosa un articolo all’interno del giornale del Partito Comunista Italiano. Definito “libro informatissimo e piacevolmente erudito”, destinato alla nuova classe intellettuale piccoloborghese, Il nome della rosa è nella lettura di Spinazzola anche un’opera di impegno civile sull’oscurantismo intellettuale di ieri e di oggi, una favola moderna la cui morale si erge all’insegna di una “appassionata solidarietà” tra Sapere e Potere, tra politica e cultura.

Corriere della Sera, 30 luglio 1981


Nella rubrica dedicata ai consigli di lettura per l’estate, Anna Campanelli e Nello Gurrado dipingono uno scenario niente affatto promettente per l’editoria italiana. Non viene risparmiato neanche Il nome della rosa, fresco di vittoria del Premio Strega quello stesso anno: la commistione di generi operata dal romanzo rischia di intimidire i lettori deboli. “Troppo raffinato, colto, intelligente” per essere ritenuto un vero best seller stagionale, nonostante gli ottimi ricavi, il romanzo di Eco è accantonato in favore a una rassegnazione alla letteratura d’intrattenimento vera e propria, più adeguata alla spensieratezza dei mesi estivi.

Corriere della Sera, 29 ottobre 1986


In questo articolo lo scrittore e critico letterario Oreste Del Buono ironizza, non senza una vena di elitarismo, sulla nutrita popolazione di non lettori che, rimasta all’oscuro anche del successo letterario de Il nome della rosa, viene a conoscenza dell’esistenza del romanzo solo in occasione del recente adattamento cinematografico. Che eresia, per Dal Buono, pensare che il film sia venuto prima del libro: un’ulteriore segno dell’irredimibilità di chi in Italia non legge.

Corriere della Sera, 15 novembre 1980


Il romanzo viene presentato nella rubrica del quotidiano dedicata alle nuove uscite editoriali della settimana con una successione di superlativi assoluti che riflette l’entusiasmo già esistente. Il nome della rosa viene inoltre programmaticamente indirizzato a un pubblico ampio, giocando fin da subito sulla polarizzazione tra entusiasmo e noia destinata a crearsi all’interno del pubblico di massa. Non resta, ai lettori del Corriere, che acquistare il libro, partecipare alla discussione letteraria del momento e farsi un’idea.

Corriere della Sera, 10 settembre 1986


Alla vigilia dell’adattamento cinematografico del romanzo Raffaele La Capria intervista William Weaver, il traduttore inglese de Il nome della rosa il cui lavoro ha reso possibile il “successo all’americana” del romanzo negli Stati Uniti. Weaver ha intrattenuto un rapporto professionale molto cordiale con Eco, confrontandosi continuamente con l’autore sulle questioni di traduzione più spinose. Per tradurre Il nome della rosa Weaver si deve confrontare con testi medievali e voci narranti assai ostiche dal punto di vista linguistico, inventando una lingua capace di rendere in inglese l’intenzione di ricreare la distanza temporale e culturale tra il quattordicesimo e il ventesimo secolo. Il nome della rosa non è il primo romanzo italiano che ha dato filo da torcere a Weaver, il quale solo pochi anni prima aveva tradotto la produzione postmoderna di Calvino, affrontando Se una notte d’inverno un viaggiatore e Le città invisibili.

Corriere della Sera, 7 gennaio 1987


L’articolo di Valerio Riva muove dai risultati di un’inchiesta pubblicata sul settimanale “Panorama”, in cui, delle 866 persone che avevano comprato Il nome della rosa ed erano state intervistate, quasi due terzi avevano dichiarato di non averlo ancora letto. Ancora una volta si riporta il discorso all’impatto culturale dell’adattamento audiovisivo rispetto all’originale letterario, mediante l’analogia con Il dottor Zivago di Boris Pasternak. Il breve pezzo solleva molteplici problematiche: la differenza tra il finale del libro e del film, il “pubblico ideale” individuato anche da Spinazzola nei giovani istruiti e il passato neoavanguardistico di Umberto Eco.

Il nome della rosa come...

Romanzo giallo

La chiave di lettura più immediata, a una prima lettura de Il nome della rosa, porta il lettore a ricondurre il romanzo al filone poliziesco. Quella di Umberto Eco a proposito è una scelta consapevole, attuata sia nella struttura narrativa – una catena di delitti e indagini all’interno di una collocazione spazio-temporale chiusa – sia nel riferimento alle figure di Sherlock Holmes e John Watson nei nomi dei protagonisti Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk e nella loro dinamica.

Letto come un romanzo giallo, Il nome della rosa si presenta come un romanzo prolisso e non di rado diluito in digressioni facilmente superabili. Questa lettura superficiale, e in qualche modo selettiva, non toglie tuttavia merito alla possibilità di ricavare intrattenimento dalla struttura della detection. A questo proposito gli intenti dell’autore rispecchiano ciò che aveva teorizzato quindici anni prima ne Il superuomo di massa:

Il piacere del lettore consiste nel trovarsi immesso in un gioco di cui conosce i pezzi e le regole – e persino l’esito – traendo piacere semplicemente dal seguire le variazioni minime attraverso le quali il vincitore realizzerà il suo scopo.

Romanzo storico

Il nome della rosa presenta una nutrita quantità di digressioni ascrivibili al romanzo storico inteso nell’accezione manzoniana del termine: un “componimento misto” di storia e d’invenzione, sia a livello di avvenimenti che di personaggi. Gli eventi delle sette giornate del romanzo sono ancorati nella verità storica sin dal prologo, dove Adso da Melk, ormai anziano, dedica più pagine a precisare le coordinate storiche e sociali entro cui si colloca la sua esperienza all’abbazia. Questa perizia di particolari per natura risulta appetibile ai lettori interessati ma ne dissuade altri, più attratti dall’intreccio giallistico o dalla caratterizzazione dei personaggi.

Le digressioni storiche de Il nome della rosa, tuttavia, non sono puramente autoreferenziali: sempre in linea con la tradizione del genere letterario, infatti, Eco parla del suo presente attraverso il passato, con una mossa che gli assicura al tempo stesso maggiore libertà di espressione e maggiore spessore citazionistico. Il quattordicesimo secolo de Il nome della rosa è un riflesso del contesto storico e politico degli anni Settanta, tempo in cui è stata concepita l’opera. Si ritrovano infatti echi degli anni di piombo, dei movimenti terroristici e della crisi ideologica che ne è conseguita.

Gothic novel

Il nome della rosa presenta richiami al gothic novel connessi all’ambientazione e all’atmosfera della vicenda: sin dalla prima giornata l’Edificio dell’abbazia incombe sui protagonisti e sul lettore con la sua mole austera e a tratti minacciosa, e le pagine del romanzo pullulano di rovine al contempo materiali e morali, cripte e locali proibiti, oltre alla ben più ovvia trama sanguinosa della catena di omicidi che si dipana nel corso delle sette giornate.

In linea con la tradizione del romanzo gotico, Il nome della rosa discute su contrasti e confini tra razionalità e superstizione, in un gioco di rimandi al tempo stesso tradizionale e post-moderno. È tradizionale la componente proibita, misteriosa delle pratiche interne all’abbazia che culmina nei capitoli finali ambientati nel Finis Africae; è invece post-moderna la tendenza a ricombinare questi elementi in un continuo dialogo tra pensiero, mentalità, estetica medievale e dell’età contemporanea.

Romanzo filosofico

Le dispute teologiche del tardo Medioevo sono la forza motrice dell’intero romanzo, oltre che sistema valoriale entro cui si collocano i personaggi e le loro azioni. Il nome della rosa può essere letto come un conte philosophique che passa in rassegna il tramonto della civiltà medievale – ormai divenuta fine a se stessa tanto quanto il lavoro di copiatura interno all’abbazia, infestata da estremismi e superstizioni  e le prime avvisaglie del pensiero moderno, incarnate dal pensiero di Guglielmo da Baskerville.

Le interpretazioni più approfondite del romanzo in questo senso si sono incentrate proprio nella rivalità tra Jorge da Burgos e Guglielmo da Baskerville, resa simbolo dello scontro tra il tomismo della filosofia Scolastica e il nominalismo di Guglielmo da Ockham. Questo scontro è in ultima analisi inconciliabile, come dimostra l’esito catastrofico degli avvenimenti del Finis Africae. L’apporto della filosofia è tuttavia ben più ampio, e va dal fulcro dell’intera vicenda, ossia il secondo libro della Poetica di Aristotele, all’enumerazione dal gusto quasi bibliografico di filosofi, teologi, matematici e altri protagonisti della cultura di quei secoli.

Opera aperta

L’espressione “opera aperta”, che ha dato il titolo all’omonimo saggio del 1962, appartiene al periodo neoavanguardistico di Umberto Eco e si riferisce a qualunque composizione che abbia bisogno della collaborazione attiva del fruitore per ottenere una pienezza di significati. La fruizione del prodotto avanguardistico è ben diversa da quella di un best seller: si basa infatti su una parità intellettuale tra autore e lettore, irraggiungibile quando l’intento è quello di raggiungere un pubblico più esteso possibile.

Il nome della rosa è un’opera postmoderna, in cui l’autore risolve questa impasse disponendo i contenuti su più livelli di lettura e interpretazione e facendo ampio uso di effetti di ironia. È però ancora un’opera aperta, o perlomeno lo è per il “lettore ideale” che Eco concepisce, per l’ampio uso della tecnica dell’intertestualità, ossia della citazione di espressioni o brani ricavati da altre fonti, le quali spaziano da testi religiosi e filosofici del Medioevo a parallelismi ludici con romanzi di largo consumo come le avventure di Sherlock Holmes.

La piena interpretazione dell’opera, così come l’autore l’ha intesa, è quindi possibile attraverso la decodifica e la connessione tra il questi due poli: quello erudito e quello ironico.

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